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domenica 16 settembre 2012

L'infarto del miocardio. Che cosa è?


L’infarto del miocardio consiste nella morte delle cellule (necrosi) di una parte del muscolo cardiaco, causata da un’assenza prolungata di flusso di sangue (in genere superiore a 30 minuti), dovuta, a sua volta, all’improvvisa occlusione dell’arteria coronaria che normalmente alimenta la regione. Maggiore è l’area del muscolo cardiaco colpita dall’infarto, maggiore è la gravità dell’infarto stesso, in quanto meno muscolo cardiaco rimarrà vitale a svolgere la sua funzione di contrazione. L’infarto miocardico rappresenta un evento frequente nella popolazione attuale e da solo incide per oltre il 20% sul tasso di mortalità nei paesi occidentali. Molto spesso ci si sente chiedere “dottore perché mi è venuto l’infarto?” In realtà non è possibile dare una risposta precisa a questa domanda. L’infarto è, infatti, una patologia di origine multifattoriale, ossia una patologia di cui sono responsabili, in misura variabile, diversi fattori, che peraltro non sono uguali in tutti i pazienti. I principali fattori di rischio dell’infarto miocardico, come dimostrato da numerosi studi, sono il fumo, l’ipertesione, il diabete, lo stress, l’obesità addominale, l’inattività fisica, l’ipercolesterolemia, una alimentazione povera di frutta e verdura (Vedi Prevenzione Cardiovascolare). Avere uno o più di questi fattori di rischio non rappresenta una “condanna” ad avere un infarto, ma un aumento del rischio di poterlo avere, così come l’assenza di fattori di rischio non è un’assicurazione contro l’infarto, ma comporta semplicemente una notevole riduzione del rischio. È fondamentale comunque tenere presente che per l’infarto miocardico, come per molte malattie, la migliore terapia è la prevenzione, che comporta la riduzione, o meglio l’eliminazione, dei fattori di rischio. Come detto, l’evento acuto responsabile dell’infarto miocardico è l’occlusione di un’arteria coronaria, e questa, nella grande maggioranza dei casi, è causata dalla formazione di un trombo (ossia, di un coagulo di sangue) all’interno dell’arteria coronaria. A sua volta, la formazione del trombo è innescata da una rottura o ulcerazione di una placca aterosclerotica (Vedi Prevenzione Cardiovascolare). La placca aterosclerotica, sulla quale si è accentrata molta parte della ricerca cardiovascolare negli ultimi dieci anni, è una protuberanza all’interno di un vaso (in questo caso coronarico), che ne causa un restringimento, ed è dovuta ad accumulo di grassi e cellule infiammatorie. Proprio queste ultime, attivandosi, sarebbero responsabili, in molti casi, della rottura della placca. Una volta rotta o ulcerata, la placca stimola la coagulazione del sangue che viene in contatto con essa, con conseguente formazione di un coagulo (trombo). Come accennato sopra, il trombo occlude l’arteria coronaria a livello della placca complicata, causando l’occlusione del vaso e l’interruzione del flusso di sangue nell’arteria colpita, con conseguente morte della regione miocardica abitualmente alimentata dal vaso. L’entità del danno rappresenta il maggiore determinante della prognosi futura del paziente, per quanto riguarda sia la durata sia la qualità della vita. Pertanto gli sforzi maggiori della ricerca clinica si sono concentrati sui metodi più efficaci per riaprire quanto prima possibile un vaso coronarico occluso, in modo da ripristinare il flusso e cercare di salvare quanto più miocardio possibile. I sintomi tipici dell’infarto miocardico consistono, anzitutto, di un dolore oppressivo, spesso descritto come una morsa o un macigno, al centro del petto. Il dolore può irradiarsi al collo, alla mandibola, alle braccia, alla schiena. Può talora essere localizzato ad uno solo di questi distretti e spesso può essere presente solo a livello dello stomaco, accompagnato talora da nausea e vomito, tanto da essere confuso con una gastrite. Anche se i sintomi possono variare, è importante sapere che al presentarsi di disturbi tipici o suggestivi di infarto bisogna subito chiedere assistenza medica ed arrivare in Pronto Soccorso nel più breve tempo possibile. Molti pazienti, infatti, muoiono ancora prima di arrivare in Ospedale a causa di complicanze aritmiche che causano arresto cardiaco e molti arrivano quando il danno al muscolo cardiaco è ormai esteso ed irreversibile. Negli ultimi venti anni si sono fatti progressi enormi nel trattamento dell’infarto miocardico, in particolare con la trombolisi prima, ossia un l’uso di farmaci che, dati in vena, sciologono il trombo presente nella coronaria, e con l’angioplastica primaria poi, un trattamento invasivo che permette con l’uso di un catetere di riaprire in modo rapido e permanente l’arteria colpita (Vedi Angioplastica coronarica). Grazie a questi progressi la mortalità intra-ospedaliera per infarto è scesa da oltre il 20% a meno del 5% nei pazienti trattati nei tempi dovuti con queste terapie. Dei pazienti con infarto miocardico, adeguatamente trattati, molti avranno una vita successiva sostanzialmente normale. Alcuni pazienti, tuttavia, avranno bisogno, a causa dell’entità dell’infarto, di trattamenti farmacologici intensivi per lo scompenso, oltre all’uso di alcuni apparecchi impiantabili , come i pace-maker resincronizzatori e i defibrillatori (Vedi Pacemaker e defibrillatori). Questi sono i pazienti che, in futuro, potrebbero giovarsi di terapie con cellule staminali. Tutti i pazienti colpiti da infarto, comunque, sono a rischio di ricadute nei mesi e negli anni seguenti, e questo dipende dal fatto che il processo patologico che è alla base dell’infarto, ossia la formazione di placche aterosclerotiche coronariche, è un processo cronico, che tende persistere o a peggiorare con il tempo facilitando nuovi episodi. Per cercare di prevenire le recidive, oltre ad una attenta correzione dei fattori di rischio, risultano indispensabili alcuni farmaci, come, in particolare, l’aspirina e le statine.
 
A cura degli specialisti dell'Istituto di cardiologia del Policlinico Gemelli, Roma
(fonte corrieredellasera)

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